Pivo si sedette vicino a lei. E la guardò.
Lei era assorta nei suoi pensieri e non aveva voglia di iniziare quella conversazione che stava facendo capolino dal silenzio. Non aveva voglia perchè sapeva benissimo come era la realtà, come funzionavano le dinamiche della vita, e non aveva voglia di sentirle. C’è una differenza fra il conoscere e l’essere d’accordo. Tra il comprendere e annuire perchè si è capito il discorso e l’annuire perchè si è convinti che quel discorso sia giusto. E’ profondamente diverso. Ma gli uomini non sembrano capirlo.
Tutto era basato sul fraintendimento, nella vita.
Quando pensava a quelle cose le veniva in mente la sensazione disarmante di tristezza e di impotenza che aveva avuto da bambina nel leggere i pensieri e i romanzi di Pirandello.
“A che serve allora?”
Si era domandata una volta finito il Fu Mattia Pascal.
“Perchè mi devo sforzare nel parlare con gli altri, nel comunicare con le persone, nel vivere in un sistema che comunque non capirà, comunque giudicherà senza aver capito nulla? Ogni parola sarà tempo perso, ogni tentativo di dialogo sarà una battaglia impossibile da vincere, ogni frase travisata, ogni sguardo mal interpretato. E a che serve allora?”
E mentre pensava a queste cose e ancora, dopo tutti quegli anni, non trovava risposta, si voltò verso il Pivus che stava iniziando a stare in silenzio da troppo tempo, sorprendendola e spingendola a iniziare lei quella conversazione che non aveva voglia di fare.
Poi, improvvisamente, le vennero in mente dei ricordi che aveva creduto di aver dimenticato.
Era lì, di fronte a lei. o meglio, sul palco di fronte a lei, e scrollava la testa a tempo di musica con gli occhi verdi che da lontano non sembravano verdi, e i boccoli, che all’attaccatura delle tempie erano un po’ sudati e la camicia azzurra che lei le aveva regalato.
Era bello ascoltare la sua musica, e a volte lei aveva pensato che era bello anche ascoltare le sue parole. Oppure era lui che ascoltava lei? Non si ricordava bene, era passato troppo tempo, e aveva bruciato tutte le lettere che lui le aveva scritto, alle quali lei aveva risposto perchè era fatta in quel modo: metteva un punto, andava avanti.
O almeno ci provava. Ci provava a chiudere e non voltarsi mai più. Ci provava a lasciarsi tutto nel passato imponendosi di non voltare la testa anche mentre sapeva che lui la stava cercando con lo sguardo. Ci provava a ripetersi che indietro non si torna, indietro è inutile guardare, indietro non ci si può più andare.
E pensava di essere diventata molto brava, negli anni, a partire. Come sapeva partire lei nessuno mai. Come cadeva era discutibile, come sbagliava lo era ancora di più.
“Sbaglia meglio” le aveva detto qualcuno. Ma ancora non c’era riuscita, anzi a volte aveva come l’impressione di sbagliare peggio. Si può sbagliare peggio? Certo che si può e lei ne era la prova vivente.
Eppure… ripartire. Le sembrava di essere diventata brava nel ripartire. Nel rialzarsi da terra dopo che l’uragano aveva spazzato via tutto, nel guardarsi intorno, nel deserto della vita, e dirsi: “Va bene, ora andiamo.”
Era diventata brava, o era solo un’impressione?
E quel bisogno di partire, di andarsene, di non fermarsi mai tra delle braccia troppo tempo, non fermarsi mai in un posto così a lungo, non mettere mai a letto pensieri, emozioni e sogni, mai, era un bisogno atavico di tutti gli uomini oppure era la sua caratteristica di non trovare pace in quella vita?
Ma, sapeva, di aver lasciato alle spalle così tanti occhi verdi, così tanti capelli che venivano giù morbidi e coprivano un po’ il volto, così tante canzoni, così tanti strumenti in legno prezioso, ore di prove nei garage, matite temperate con dei coltellini che rilasciavano un profumo misto di legno e di grafite. Sì, la grafite profumava.
Sapeva, che voltandosi, avrebbe rivisto le ombre di tutte quelle cose di inestimabile valore a cui aveva rinunciato, a cui aveva detto addio, a cui non aveva permesso di camminare con lei o non aveva più avuto il cuore di seguire. Sapeva che voltandosi, le avrebbe trovate tutte lì.
E sapeva anche che lo aveva fatto perchè un giorno, non dietro ma davanti a lei, avrebbe trovato la cosa preziosa che stava cercando. E la bellezza, e la forza, e l’essere straordinario di quella cosa straordinaria, sarebbe stata la risposta.
La risposta.
Quella risposta.
A quella maledetta domanda che le rimbombava in testa: “Ne è valsa la pena?”.
Poi Pivo ruttò. E si mise a ridere.
“Scusa, eri tra i tuoi pensieri.”
Eccoci, lei pensò, ora avrebbe dovuto iniziare a parlare.
Ma Pivo si alzo, si sgranchì le zampe, le abbracciò un secondo un braccio guardando il cielo e disse: “Che magnifica serata! Guarda che stelle!”.
Le stelle. Già, le stelle. Alzò anche lei il naso al cielo. Quante estati a guardare le stelle.
“Sara ho fame, andiamo?”
Riconobbe Cassiopea, ma non le permise di aprire ulteriori ricordi su ciò che era stato.
E, distogliendo gli occhi dal cielo, da Cassiopea, dalle stelle che la osservavano sbagliare meglio, disse in silenzio addio a tutti gli occhi verdi, agli strumenti in legno e alle note ricercate nella notte.
Non avevano saputo combattere per lei, con lei. Non avrebbe più combattuto per loro.